Ospedale di Mombello - RIP

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Ospedale di Mombello

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EX MANICOMIO DI MOMBELLO (EX OSPEDALE PSICHIATRICO ANTONINI)

La storia




 

Provincia: Monza Brianza
Tipologia: ospedale psichiatrico / manicomio
Stato attuale: edifici ben conservati
Età di apertura: 1865
Data di abbandono: dal 1978 al 1999
Motivo dell’abbandono: entrata in vigore della legge Basaglia
Accesso: su strada
Modalità di visita: con restrizioni

Meta ambita da vaste comitive di fotografi, la struttura che un tempo ospitava il manicomio di Mombello resta oggi un’eco lontano di quella che all’inizio dell’800 fu conosciuta come “la villa di Napoleone”, villa dove l’imperatore francese fissò la sua residenza durante la campagna d’Italia.
La villa, sita a Mombello e costruita nel 1754, fu conosciuta all’epoca come Villa Pusterla – Crivelli, progettata dall’architetto Francesco Croce che la fece edificare sui resti di un antico edificio risalente, si pensa, al medioevo che rispettava i canoni estetici e architettonici dell’epoca e possedeva un maestoso giardino che la circondava e che conferiva ulteriore prestigio al luogo.
Non solo Napoleone fu “suo” ospite illustre, ma nelle sue stanze dimorò anche il re delle Due Sicilie, Ferdinando IV, dopo che la madre, Maria Nunziata e le tre sorelle Carlotta, Elisa e Paolina andarono a vivere li. Il 14 giugno 1797 fu anche sede di un importante matrimonio fra Paolina e il generale Leclerc.
Nel 1865 Villa Pusterla – Crivelli aprì ufficialmente le porte a molte povere anime con storie tanto diverse quanto simile nella loro sofferenza, e divenne in breve tempo “il manicomio più grande d’Italia”.
Il 13 maggio 1978 con l’entrata in vigore della legge Basaglia si diede inizio allo smantellamento e conseguente chiusura di tutti i manicomi presenti sul suolo italiano, e Mombello seguì la stessa sorte. La definitiva chiusura del complesso avvenne nel 1999, anno in cui terminò la totale dismissione delle strutture.

Oggi il gigantesco complesso che conta quasi una decina di edifici versa in totale stato di abbandono, solo l’edificio, un tempo denominato Villa Crivelli, è ancora attivo e ospita
l’Istituto tecnico agrario, inoltre all’interno del complesso sono situate anche due chiese,
una in ristrutturazione e un’altra apparentemente nuova.

Riportiamo un interessante articolo di Roberta Parrilla: L’OSPEDALE PSICHIATRICO DI MOMBELLO pubblicato su “milanoCITTADELLESCIENZE” che racconta dettagliatamente gli eventi che hanno interessato l’ex Manicomio di Mombello.

Roberta Parrilla
L’OSPEDALE PSICHIATRICO DI MOMBELLO E LA DIREZIONE DI GIUSEPPE ANTONINI
Giuseppe Antonini, L’ospedale psichiatrico provinciale di Mombello, “Milano”, 4 aprile 1929,
pp. 216-220.

“San Vincenz di matt”. Così veniva scherzosamente chiamato dal popolo il primo “ricovero” di pazzi del Ducato di Milano, esistente sin dal 1111. In realtà S. Vincenzo non si limitava ad ospitare malati mentali: dava alloggio anche a poveri, pensionati, muti, ciechi, zoppi. Nel 1780 Maria Teresa d’Austria decretò la soppressione dell’Ospizio di San Vincenzo in Prato e l’apertura della Pia Casa della Senavra, un austero e tetro palazzo situato fuori Porta Tosa, destinato al ricovero dei soli “pazzi”. La decisione dell’imperatrice soddisfaceva una nuova necessità nel Milanese: verso la fine del XVIII secolo si iniziava a riconoscere la specificità della malattia mentale, che andava distinta e trattata separatamente in ospedali appropriati. Nonostante i malati ricoverati a S. Vincenzo non superassero il centinaio, il Ducato di Milano decise di occuparsi di questa specifica categoria, destinandole una struttura apposita. Il manicomio nasceva dunque dall’esigenza di distinguere tra malati mentali e non, con lo scopo di progettare interventi mirati per la cura e la riabilitazione degli alienati. L’ipotesi manicomiale costituì una profonda innovazione di matrice illuminista: in opposizione alla classica soluzione asilare, che accoglieva senza distinzione ogni tipologia di malato, il manicomio diventava un efficace strumento di guarigione e si identificava con la cura.
Tuttavia l’intervento riformatore rivelava dei grossi limiti: l’ambiente della Senavra venne giudicato da Andrea Verga una “vergogna nazionale” a causa dell’angustia delle camere, dell’umidità e della deficiente assistenza medica e materiale agli ammalati. Nonostante l’acquisto di un vasto appezzamento in un’amena località vicino alla stazione di Desio e l’assegnazione dell’incarico all’architetto Pestagalli, il progetto del nuovo manicomio si arenò definitivamente. La Commissione del Consiglio Provinciale, dinanzi al numero sempre crescente dei malati mentali e all’esigenza di chiudere la Senavra, avanzò l’idea di una succursale: nell’agosto del 1865 i ricoverati cominciarono a passare alla Villa Pusterla-Crivelli di Mombello.

Motivata da difficoltà economiche, l’amministrazione si vide costretta a rinunciare al progetto del “manicomio modello” di Desio e decise di portare avanti un programma alternativo: ampliare la succursale di Mombello, che originariamente avrebbe dovuto ospitare in totale centocinquanta “pazzi tranquilli”, e trasformarla in “grandioso manicomio”. I lavori di costruzione si compirono nel 1878, l’anno successivo la Senavra fu del tutto evacuata dagli ammalati e il manicomio di Mombello, costruito al massimo per novecento ricoverati, venne occupato fin dalla sua inaugurazione da una folla di malati (1121) superiore di oltre un quinto della sua capienza.
Le critiche e le proposte di personaggi come Biffi e Verga continuarono anche dopo l’apertura dell’Istituto di Mombello: in particolare veniva biasimata la lontananza da un grosso centro abitato (18 km da Milano) e dalla stazione ferroviaria, che rendeva necessari lunghi tragitti ad ammalati e visitatori. Il superaffollamento rimase una caratteristica costante del nuovo manicomio: nel 1879, sotto la direzione del dottor Gaetano Rinaldini (1813-1882, direttore dal 1879 al 1882), i medici erano soltanto sei, responsabili della cura e riabilitazione di circa 1250 ricoverati. La situazione si aggravò ulteriormente durante la direzione di Edoardo Gonzales (1843-1920, direttore dal 1882 al 1903) e di Gian Battista Verga (…-1917, direttore dal 1903 al 1911), che con tenacia sollecitarono gli amministratori affinché risolvessero il problema. Come i loro predecessori, i direttori lamentavano l’inefficienza causata dal superaffollamento cronico (nel 1906, dieci medici per una popolazione di circa 1900 ricoverati), e sostenevano la necessità di una nuova struttura manicomiale, da collocarsi nelle vicinanze della città. Le loro affermazioni rimasero tuttavia inascoltate: nel 1908 venne decisa la costruzione di quattro “Padiglioni aperti” (senza un muro di cinta attorno), ognuno capace di cento posti letto, nella pineta di Mombello, che già faceva parte dei possedimenti dell’Amministrazione. Nel 1911 assunse la direzione di Mombello il dottor Giuseppe Antonini (1864-1938, direttore fino al 1931), che portava con sé un bagaglio ultradecennale di esperienza personale nella direzione di istituti psichiatrici, in particolare presso il manicomio di Udine, ed una cultura scientifica lungimirante. Allievo di Lombroso, Antonini si interessò non solo all’antropologia criminale e alla criminologia, ma anche alla psicologia, alla neurologia, alla clinica psichiatrica, producendo oltre cento pubblicazioni sulle diverse tematiche. I primi scritti riguardarono principalmente i problemi sociali del suo tempo, come il gozzo, la pellagra e l’alcolismo, che Antonini approfondì con studi clinico - statistici. Venne inoltre riconosciuto come “maestro” nel campo della tecnica manicomiale, un’attività di ordine più strettamente pratico a cui dedicò molta parte del suo tempo e nella quale lasciò un’impronta originale e profonda. In Trattato sull’assistenza degli alienati in Italia e nelle altre nazioni, pubblicato nel 1918 in collaborazione con Tamburini e Ferrari, sono raccolte le idee basilari di Antonini sull’igiene mentale e la tecnica assistenziale, tendenti a ridurre al minimo il restraint degli alienati e ad elevare il tenore degli Istituti.

Come i suoi predecessori, Antonini si dedicò con tenacia al problema del sovraffollamento dell’Istituto di Mombello, sostenendo con forza la necessità di un nuovo manicomio nelle vicinanze di Milano. Rifiutava con forza l’idea di un ampliamento della struttura, che rappresentava già un’eccezione per il forte numero delle presenze (2600 ricoverati nel 1913) e non soddisfaceva in termini di accettazione le esigenze della città di Milano. In una conferenza tenuta nel 1913 alla sede dell’Ordine dei Medici della Provincia di Milano, Antonini propose la costruzione di un grande ospedale nel terreno presso Affori, molto vicino alla città e dunque adatto all’accettazione e alla cura dei malati acuti della Provincia. Inoltre, pianificò nel dettaglio le caratteristiche che avrebbe dovuto possedere il nuovo Manicomio di Affori, anticipando concetti innovatori di psichiatria: già a partire dalle ammissioni, i malati avrebbero dovuto essere suddivisi e successivamente seguiti nelle varie fasi della malattia dallo stesso gruppo di sanitari. Antonini ribadiva la necessità del “continuum terapeutico”, inoltre sottolineava il ruolo della profilassi delle malattie mentali e delle funzioni ambulatoriali di visita e consultazione, funzioni che l’Ospedale di Affori avrebbe potuto garantire grazie alla sua vicinanza con la città. Mentre Mombello era proposto come Manicomio coloniale per la cura dei malati cronici, escludendo ogni possibilità di espansione: “Urge l’inizio immediato dei lavori (ad Affori) poiché Mombello non potrà più oltre aumentare e dovrà nel frattempo provvisoriamente provvedere in via eccezionale” (Antonini, 1913).
I suggerimenti del Direttore rimasero però inascoltati: il Consiglio Provinciale (1913) decise che la succursale ad Affori (Villa Litta Modignani) avrebbe dovuto ospitare un centinaio di ammalati cronici e deliberò un nuovo gruppo di opere edilizie per riformare e ampliare Mombello, in modo da creare una sistemazione generale e definitiva agli alienati. Negli anni successivi vennero costruiti nuovi padiglioni nell’area di quest’ultimo: tre eleganti strutture (Padiglioni Rossi, De Sanctis, Mingazzini), edificate (1915) nella vasta spianata ai piedi del colle dominato dalla Villa Pusterla, e un padiglione adibito ad “Osservazione e vigilanza donne” (1914). Antonini accettò la decisione dell’Amministrazione e sorvegliò con cura meticolosa i progetti di costruzione, che diedero vita a padiglioni di notevole qualità architettonica, caratterizzati da ambienti areati, luminosi, e suddivisi secondo criteri razionali. Gli spazi erano progettati in modo da permettere una separazione delle varie categorie dei ricoverati, distribuiti secondo il comportamento in Tranquilli, Agitati, Lavoratori, convalescenti eccetera. Negli anni a seguire il numero dei ricoverati a Mombello aumentò sempre di più, in particolare durante la Grande Guerra, toccando la cifra record di 3504 malati nel 1918. Il Consiglio provinciale prese delle decisioni per arginare il problema del sovraffollamento: l’istituzione della succursale provvisoria dell’ex Ospedale civico di Busto Arsizio per i malati militari (1918), la costruzione di un’Astanteria di duecentocinquanta letti nell’area di Villa Litta Modignani (1919), l’apertura di una succursale a Contegno (1928) per ospitare i malati della Provincia di Varese. Questi provvedimenti avrebbero dovuto costituire una sorta di compromesso tra le ragioni economiche dell’Amministrazione provinciale e le aspirazioni di Antonini, che in verità dovette accettare la sconfitta e le disposizioni per l’ampliamento di Mombello.



Nonostante ciò, Antonini si impegnò a modificare e migliorare quanto più possibile il vecchio manicomio, proponendo addirittura l’acquisto e l’integrazione dei terreni di proprietà Salina e Cattaneo, che penetravano irregolarmente nella zona manicomiale. Istituì inoltre un completo servizio chirurgico, la consulenza ginecologica, i gabinetti di odontoiatria, ma soprattutto cercò di riorganizzare il lavoro dei ricoverati, concentrando le varie attività in un nuovo fabbricato, denominato “Casa del lavoro”. Antonini prendeva posizione contro i fanatici dell’ergoterapia, che spesso veniva considerata l’unico rimedio per il recupero dei pazzi e utilizzata dalle Amministrazioni per il loro tornaconto economico; tuttavia sottolineava l’importanza del lavoro per i ricoverati, che anche in manicomio dovevano avere la possibilità di esercitare le professioni della loro vita extramanicomiale. Perciò, oltre alla colonia agricola e ai giardini dell’Ospedale che davano lavoro a contadini e ortolani, nella Casa del lavoro un buon numero di ricoverati poteva dedicarsi ad attività artigianali o semi-industriali (falegnameria, tessitoria, muratura ecc). Inoltre molti malati partecipavano attivamente ai lavori interni dell’Istituto: servizi di guardaroba, di lavanderia, panificio, lavori domestici eccetera. Oltre al lavoro, Antonini tentò la cura dei malati anche attraverso la musica, con la formazione di un Corpo bandistico di settanta suonatori; tramite l’esercizio fisico, grazie alla realizzazione di un campo sportivo in mezzo alla pineta attorno al manicomio; e attraverso l’arte, con l’apertura di una Sala Ricreativa nel Reparto Rossi.
Nel 1924 Antonini venne nominato presidente onorario della Sezione Lombarda della Lega Italiana d’Igiene Mentale, fondata nello stesso anno da personaggi illustri come Medea, Cerletti e Corberi. La Lega, che sostanzialmente realizzava i servizi del Dispensario psichiatrico, aveva come obiettivo la cura del malato “nel corpo e nello spirito”: attenzione particolare alla diagnosi e cura precoce delle forme iniziali di malattia mentale suscettibili di cura ambulatoriale o domiciliare, in modo da evitare quando possibile l’internamento manicomiale. La passione che Antonini metteva nell’assistenza del malato mentale dentro e fuori l’Ospedale psichiatrico traspare nel suo ultimo desiderio, rimasto tuttavia inappagato: la Casa pei dimessi, una struttura che potesse ospitare gli alienati tornati in libertà e che li sostenesse nel difficile periodo successivo alla dimissione. Antonini cercò sempre di gettare un ponte sulla realtà extramanicomiale e di modernizzare l’Istituto, in modo da creare un ambiente ospedaliero di cura per i malati mentali ed una colonia di lavoro per addestrare alla vita in società, piuttosto che un semplice ospizio per malati cronici. Il Manicomio avrebbe dovuto trasformarsi in vero ospedale psichiatrico, specializzato allo studio e alla riabilitazione dei malati psichici attraverso moderni mezzi di cura e intervento semiologico. Nonostante gli sforzi appassionati contro l’ampliamento di Mombello, dovette accettare le numerose disposizioni dell’Amministrazione provinciale e si adoperò per migliorare per quanto possibile il manicomio in cui lavorava. In un ventennio di direzione, l’impegno e la dedizione di Antonini produssero cambiamenti significativi nella vita dei ricoverati, che grazie ai lavori di ricostruzione e modernizzazione iniziarono a vivere in ambienti decorosi e salubri, e grazie a concezioni psichiatriche innovatrici ebbero la possibilità di affacciarsi alla realtà oltre il muro manicomiale. Nel giugno del 1930 Antonini chiese al Preside della Provincia, Sileno Fabbri, il collocamento a riposo e il maggio dell’anno successivo partì da Mombello, continuando tuttavia anche in seguito lo studio dei malati psichici.
Il suo articolo del 1929 che qui riproduciamo racconta brevemente la storia del manicomio, per poi presentare la struttura di Mombello e le attività praticate al suo interno. Viene descritta la disposizione degli spazi interni dei grandi padiglioni, femminili e maschili, ed i reparti dell’Istituto: Epilettici, Tranquilli, Agitati, Reparto di Osservazione eccetera. Particolare risalto è dato alla qualità degli ambienti, che a seguito dei lavori di ricostruzione riuscivano a “dare ai malati ed ai parenti, che per la prima volta accedono a Mombello, un’impressione gradevole, e insieme la persuasione che il Manicomio non è più luogo di reclusione e di terrore, ma un asilo di cura e di riposo per il malato di mente”.
Anche in questo articolo egli dichiara apertamente le sue concezioni progressiste: il manicomio non avrebbe dovuto rappresentare un ricovero per cronici, bensì un ospedale di cura ed una colonia di lavoro, aperto alle nuove sperimentazioni cliniche e alla realtà sociale oltre le mura. Antonini descrive nell’articolo le terapie adottate, “sempre sollecito ad introdurre e sperimentare ogni nuovo mezzo di cura ed ogni nuovo intervento semiologico” e le diverse attività lavorative dei pazienti: squadre di lavoratori epilettici occupate nell’agricoltura e nella tessitura, addetti alla spaccatura e alla segatura della legna, ricoverati impegnati nella lavanderia e nei lavori di guardaroba. Viene qui esaltata l’importanza del lavoro, considerato uno strumento indispensabile per la cura dei malati, i quali potevano in questo modo addestrarsi a “riprendere l’esercizio della loro professione, pronti così a ritornare, all’atto della dimissione, alla loro opera nella vita sociale”. L’articolo dedica però spazio anche alle attività ricreative e formative: il teatro, che metteva in scena ogni settimana spettacoli di diverso genere, dalle commedie ai drammi, il cinema e la scuola, collocata nel Reparto Fanciulli e fornita del prezioso materiale Montessori e Frübeliano.
Se ricordiamo le instancabili opposizioni di Antonini all’ampliamento di Mombello, il tono entusiastico di alcuni passaggi dell’articolo potrebbe risultare poco comprensibili o addirittura oscuro. Vengono elogiati gli spazi interni per il decoro e la sobrietà, e viene dedicato ampio spazio alla descrizione della pineta, con particolare attenzione all’idilliaco boschetto di ippocastani e all’eleganza degli edifici storici. Lo stile narrativo dell’articolo è chiaramente un espediente per catturare l’interesse del lettore, distanziandolo dalla pesante realtà di sofferenza della vita manicomiale. Lo sforzo di Antonini è di presentare la vita “mombelliana” sotto la miglior luce possibile, dandocene una rappresentazione sicuramente idealizzata, che rispecchia la mentalità e la personalità di un direttore idealista, amante dell’arte, della vita semplice nella natura e che, sopra a ogni cosa, attribuiva la massima importanza alla dignità del malato.
Anche dopo aver visto fallire tutti i tentativi da lui compiuti per impedire che Mombello diventasse una mega-struttura manicomiale -il più grande manicomio italiano - accettò le decisioni dell’Amministrazione provinciale per continuare a impegnarsi in prima persona, al fine di garantire ai ricoverati condizioni assistenziali le più umane possibili. La memoria della sua umanità vive ancora a Mombello, “in questo Istituto tutto impregnato della Sua grande anima, tutto imbevuto del sangue più vermiglio del Suo immenso cuore. Non vi è pietra di questo Ospedale che non parli del Suo amore, della Sua sapienza, della Sua instancabile attività; non vi è angolo che non serbi la traccia indelebile della sua mano esperta e sagace, della sua mente aperta alle più larghe idee”

 
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